Non basta rompere la fotocamera

 

Quando tutto diventa possibile, una sola cosa diventa impossibile: la ribellione.

 

I padroni dei pensieri (ce ne sono, ce ne sono…) ci hanno messo un secolo, ma alla fine hanno capito che il controllo sociale più efficace non consiste nell’affamare le menti, ma nel rimpinzarle fino a scoppiare. L’indigestione atrofizza e reprime il dissenso più della fame.

 

Hanno capito che lo spirito critico non viene ucciso dalla censura, ma dall’eccesso. Che l’utile disinformazione non si ottiene negando le notizie, ma mettendone in circolazione troppe per poter essere maneggiate.

 

Ho comprato un libro appena uscito in Francia, fidandomi del suo titolo: Giocare contro gli apparecchi. Di Marc Lenot, storico dell’arte, esperto di fotografia, blogger.

 

Si tratta in realtà di un lungo elenco ragionato di fotografi e artisti sperimentali (in cui figurano anche, con trattamento d’onore, almeno tre grandi sperimentatori italiani: Nino Migliori, Franco Vaccari, Paolo Gioli), illuminato però dall’intuizione semplice e profonda che il titolo riassume, l’intuizione di un filosofo non accademico del fotografico, Vilém Flusser.

 

Se la fotografia, scrisse Flusser, è un dispositivo sostanzialmente autoritario che trasforma il suo utente in mero funzionario, attuatore passivo di un programma deciso da altri (i progettisti degli apparecchi), allora l’unica possibilità di ribellione per il fotografo è, appunto, giocare contro il dispositivo. Costringere l’apparato tecnologico a fare ciò per cui non era stato progettato per fare.

 

La sperimentazione in fotografia, per Lenot, benché questa parola voglia dire mille cose, benché non circoscriva una scuola né una corrente artistica, si identifica in questa pratica divergente, che piega e deforma le intenzioni iscritte nei nostri strumenti.

 

Può riuscirci in molti modi: distruggendo gli strumenti, rinunciando agli strumenti, modificando gli strumenti, esasperando gli strumenti. Insomma, facendo funzionare gli strumenti contro loro stessi.

 

Ma che cosa succede quando gli strumenti sono felici di essere utilizzati in modi imprevisti? O per meglio dire, quando l’intenzione degli strumenti, il loro fascino seduttivo, è proprio quello di offrirci la possibilità di compiere (apparentemente) qualsiasi opzione, comprese quelle “contro”?

 

Nella penultima pagina del suo saggio, Lenot si fa la domandona: si chiede se non stia accadendo qualcosa del genere con l’avvento della fotografia digitale. I cui software docili e duttili ci promettono proprio questo, come le sirene nel mare di Ulisse: di fare per noi tutto quello che vogliamo. Perfino la rivoluzione.

 

Cosa che non potevano fare, per quanto ci provassero, gli apparecchi dell’età analogica. I cui limiti, benché via via erosi dai perfezionamenti tecnici e dai servomeccanismi, erano evidenti. Le cui opzioni erano limitate, discrete (cioè non continue; per banalizzare, potevi diaframmare solo secondo certi stop, non scegliere un intermedio, come oggi puoi fare in esposizione fine sui programmi di postproduzione…).

 

Nell’era analogica, il programma degli apparecchi era spesso inaccessibile all’utente, essendo chiuso nei meccanismi della black box, ma la sua esistenza era rocciosa ed evidente, ci si parava davanti come un limite difficile da aggirare.

 

La ribellione dello sperimentatore aveva dunque un muro visibile da infrangere, perforare, sgretolare, aggirare. In mille modi. Off-camera, pasticci con le emulsioni, apparecchi deformati o autoprodotti, pinhole… Era quasi un corpo a corpo con il dispositivo, che aveva una sua resistenza intrinseca.

 

Ma adesso il progressivo trasferimento del processo di fabbricazione delle immagini dagli apparati fisici ai programmi immateriali sta cambiando radicalmente il campo di battaglia.

 

I software, oggi, promettono (non sempre mantengono, ma ci illudono che sia solo questione di tempo, che lo faranno presto) di aiutarci a compiere tutte le trasgressioni che desideriamo.

 

Di fatto, tutte le deformazioni che costavano sforzo mentale e fisico ai ribelli sperimentatori analogici, oggi possono essere realizzate, o almeno efficacemente simulate, nella camera semioscura dei nostri programmi di postproduzione.

 

Quel che era trasgressivo, ora è autorizzato, ed è semplice, facile.

 

Persino incoraggiato. Se vuoi fare meno fatica, c’è la trasgressione in preset. I filtrini di Instagram, che simulano i difetti della fotografia povera di un tempo (che erano forme spontanee di trasgressione estetica, direi che fossero la ribellione dell’inconscio tecnologico) non sono che l’esempio più popolare.

 

La sperimentazione fotografica dunque è morta? Morta di legittimazione, di facilità, di disponibilità? Tutti sperimentatori, nessun esperimento?

 

 

Nulla di nuovo sotto il sole. Senza andare a scomodare i filosofi di Francoforte, tutti ci rendiamo conto di come il mercato abbia sempre recuperato qualsiasi buona idea, anche pensata contro il mercato, e sia riuscita a rivendercela.

 

La domanda però resta: una ribellione contro gli apparecchi è ancora possibile, o è solo una finzione che alla fine viene messa al servizio dei produttori di apparecchi? Cosa dovrebbe fare, oggi, uno sperimentatore per rimanere davvero ribelle? Cosa può ancora rifiutare, manipolare, smontare?

 

Per molti, l’ultimo spiraglio di ribellione sembra essere il rifiuto integrale, vagamente luddista, delle nuove tecnologie. Ritorno all’analogico, ma di più, alle antiche tecniche, alla chimica, alla fotografia povera, basilare, artigianale, autocostruita. Eroe e profeta di questa tendenza è Miroslaw Tichy con le sue fotocamere fatte di detriti e le sue stampe fatte nel lavandino di cucina.

 

Romantica, stimolante, poetica ma non sono sicuro che sia la strada che dicevo. Per un motivo: il mercato ha un posto, e ampio, anche per i prodotti di questo artigianato retrogrado (absit iniuria: intendo che gira all’indietro), da pezzo unico, da ricomposizione auratica.

 

Non c’è scampo, allora? Qualsiasi ribellione ingrassa il suo presunto bersaglio?

 

Quando una strada è chiusa, la cosa migliore è girare la mappa al contrario e cambiare percorso. Forse questo vicolo cieco è solo la sana dimostrazione che la pura e semplice ribellione dei modi e degli strumenti aveva un limite, e quel limite è stato raggiunto.

 

Quel limite, a mio parere. era questo: qualsiasi rivoluzione del linguaggio viene prima o poi recuperata e perfino addomesticata se non torna, non appena possibile, a chiedersi a cosa serve aver costruito un linguaggio nuovo.

 

Il ruolo delle avanguardie del Novecento è stato quello, utile, necessario, di mettere in discussione il come dell’arte, sulla base della giusta tesi per cui nel come c’è altrettanta ideologia che nel cosa. Ma fermandosi a questo, continuando sempre e solo a smontare il giocattolo, a lungo andare hanno perso di vista il perché.

 

L’arte che riflette sull’arte, che decostruisce l’arte, che denuda e demistifica l’arte ha un senso se, dopo averlo fatto, gli artisti e i loro destinatari si trovano fra le mani un’arte che non parla più solo dell’arte, ma che, tornata efficiente, ricomincia ad agire sul mondo (sempre, ovviamente, che non decidiamo che l’arte è totalmente inutile se non a se stessa, lo pensano in molti, ma è una teoria che sa un po’ di muffa).

 

È forse giunto il momento di scartare di lato. Con buona pace di Flusser (ma qualcosa mi dice che potrebbe essere d’accordo) ora l’unico modo di ribellarsi all’apparato non è più smontare gli apparati, che oggi si offrono impudenti e ruffiani al nostro smontaggio – questo l’abbiamo fatto e quindi lo sappiamo fare – ma con la nostra nuova consapevolezza prendere in mano quegli apparecchi, anche così come sono, e senza restarne schiavi usarne il funzionamento per smontare il mondo reale.

 

Il mio amico Pino Bertelli, col suo linguaggio da anarchico romantico, direbbe che un martello fuso nelle officine Krupp è adattissimo per liberare un prigioniero dalle catene di acciaio fuse dalle officine Krupp. Serve solo un po’ di forza e di mira.

 

Le critique Michele Smargiassi tient un blog sur la photographie, où cet article est paru le 16 février 2018

Et voici les commentaires (dont un de Pino Bertelli), l’auteur du concept de « photographie voyou (fotografia ludra) :

Pino Bertelli 19 febbraio 2018 alle 12:46

Caro Michele,
come sempre hai colto una parte importante del soffio filosofico della fotografia… la fotografia sarebbe abominevole se non fosse già condannata ad entrare nel mattatoio del consenso spettacolare, e siccome lo stile è l’arte delle formule, tutti hanno il medesimo stile, quello del mercato! Qualsiasi opera d’arte è viva soltanto se è una protesta, se apre una ferita, se si completa nell’indignazione e nell’eresia. C’è un riconoscimento per tutti e la stupidità, non solo in fotografia, è la religione più praticata! Aver paura è facile, ma saper dirigere la propria paura contro l’origine del male è la derivazione di tutte le ribellioni! Complimenti per le tue acute osservazioni sulla fotografia… che vanno al di là della fotografia, non è cosa facile in tempi dove il cretinismo elettorale si confonde con le bombe delle guerre che permettono a tutti di fare immagini sugli affogati del Mediterraneo e cavarci fuori anche quale inutile premio all’obbedienza. Ma l’obbedienza non è mi stata una virtù! Ti allego un’annotazione che rimanda, appunto, alla profondità delle tue riflessioni sul mezzo fotografico. Grazie ancora, Pino.
« La fotografia è sostanzialmente un dispositivo autoritario, sostiene a ragione, Vilém Flusser (e Michele Smargiassi con lui), attuatore passivo di un programma deciso da altri (i progettisti e i padroni dell’immaginario), “allora l’unica possibilità di ribellione per il fotografo è, appunto, giocare contro il dispositivo. Costringere l’apparato tecnologico a fare ciò per cui non era stato progettato per fare… un martello fuso nelle officine Krupp è adattissimo per liberare un prigioniero dalle catene di acciaio fuso nelle officine Krupp, serve solo un po di forza e di mira” (Michele Smargiassi). Tutto vero. Non basta rompere la fotocamera dunque… occorre anche indirizzare lo sguardo contro il bisogno di gloria che deriva da un profondo senso d’insicurezza e di avidità che sono i lasciapassare della mediocrità… gli entusiasti del successo sono segretamente condannati alla desolazione e all’insignificanza… Bisogna amarla molto la fotografia, per volerla distruggere… la coscienza della fotografia dominante è coscienza del mito che ne consegue… la creatività liberata dai cenacoli dello spettacolo è per essenza rivoluzionaria. Smargiassi ha compreso, come pochi, che gli spiragli di ribellione della fotografia rappresentano un taglio contro la perfezione del nulla e che bisogna girare la mappa al contrario (come sostengono i situazionisti) e cambiare percorso. Non a caso cita un poeta della diserzione e del contraccolpo, Miroslav Tichý, che non è solo un fotografo-barbone (o viceversa), ma un poeta o un cantore del disinganno che, forse, nemmeno gli svergognati dei musei riusciranno a recuperare. La vera fotografia comincia al di là della fotografia, e questo vale anche l’intera farmaceutica di ogni arte.
La poetica dell’imperfezione di Tichý esprime una gioia libertaria o una filosofia della felicità nella passione di vivere e nell’incuranza della ragione imposta… il suo stile di vita è anche quello del suo fare-fotografia… una consunzione di corpi e di sogni a nutrimento di un’anima che ama e non chiede di essere riamata… un encomio a vivere che è l’autobiografia dei fatti, voluttà della carne, geografia dei sentimenti struccati… la sua opera è intrisa nel libertinaggio dei giusti sprovvisti d’ingiustizia e non coincide con un ideale di santità presentato come perfetto… non c’è nessuna colpa nel suo immaginale, semmai la grazia che la cancella. Il sentimento d’innocenza edidetica del suo portolano figurativo non è incline a buone intenzioni… l’arte del voyeur da calendari viene amputata come delitto e più ancora il dispendio della fattografia pulsionale (i richiami alla fotografia più compiuta di Lewis Carroll sono dovuti) implica la decadenza della dossologia fotografica e tramite il diritto d’inventario del suo rizomario estetico/etico mostra una metafisica dei corpi in amore e un’innocenza dello stupore che ridicolizzano ogni forma di potere ».

Giuliano Ferrari 18 febbraio 2018 alle 12:20

« a lungo andare hanno perso di vista il perché » ecco dove andare a parare, spostare sempre di più l’attenzione al perchè, senza troppo preoccuparsi del come. L’unico campo in cui la tecnologia è perdente (almeno fino ad ora) è la decisione del cosa mostrare in funzione del perchè farlo, senza preoccuparsi di aggiungere un filtro preset, se questo filtro è utile alla comprensione del messaggio piuttosto che alla forma dello stesso.

Il Cartografo 17 febbraio 2018 alle 19:41

Ti ringrazio molto per questo bel post. Proverò a commentare di più questo blog sperando che il mio punto di vista sia gradito anche se non è esperto in arte o fotografia come quello di altri commentatori.
Mi trovo d’accordo col lettore S.P. e porto il mio punto di vista un poco più esperto di tecnologia informatica.
Innanzitutto, forse scioccamente, quando si parla di analogico vs digitale mi piace far notare che queste due parole sono state prese da un ambiente tecnico dove avevano/hanno un significato un po’ diverso. Per far capire il Vinile è analogico ma il CD è digitale tanto quanto l’mp3 o il segnale vocale di un telefono fisso.
Vorrei poi fare un parallelismo tra il movimento hacker (si traduce bene come smanettoni, non necessariamente legati alla sicurezza informatica), a volte chiamati anche maker. Per fare un esempio italiano ci sono gli hacker di Ippolita, che in un post parlavano di pedagogia hacker. Il modo di rapportarsi hacker con la tecnologia è quella di prendere dei problemi risolverli, piegando la tecnologia alle proprie volontà e usandola anche con scopi che vanno oltre a quello che i propri creatori vorrebbero, senza però risolvere problemi che sono stati già risolti.
Alla luce di questa forma mentis faccio un invito: perché invece di corsi di monografia o sviluppo analogico e pinhole camera non facciamo sporcare le mani agli smanettoni della fotografia con qualcosa di più recente? No, non parlo di Photoshop o Lightroom, parlo di lavorare sulle matrici dove vengono memorizzati i valori dei pixel con un linguaggio di programmazione. All’università lo chiamano trattamento delle immagini e le uniche propedeuticità sono un po’ di familiarità con la programmazione, niente di troppo difficile secondo me ma che nemmeno di può esaurire in un incontro di tre serate. Secondo me questo approccio farebbe sparire un po’ della paura per il digitale e darebbe una miglior comprensione di come funzionano « sotto » i software per manipolare le immagini. Istintivamente penso potrebbe servire, non credo sia lo stesso usare Photoshop ma potrei sbagliarmi e farmi prendere troppo dal mio lato ingegnere che forse è più artigiano che artista.

Stefano 17 febbraio 2018 alle 13:44

No, purtroppo non li ho conosciuti!

Fausto Ferri 16 febbraio 2018 alle 18:03

caro Stefano, scusa ma o non conosci Picasso o non conosci Duchamp
in ambedue i casi quel purtroppo è di troppo, purtroppo…

stefano 16 febbraio 2018 alle 13:09

Caro fotocrate,
La terra è tonda… dopo un giro del mondo si torna al punto di partenza, lo stesso.
Ma la persona è diversa, è cambiata.
Può partire per un nuovo giro del mondo, nuovo.
La mostra alle scuderie del Quirinale su Picasso è illuminante su questo aspetto.
Purtroppo l’arte del XX secolo ha preso la strada di Duchamp e non quella di Picasso e adesso siamo in un vicolo cieco.
Ma basta voltarsi e il mondo si apre di nuovo….inutile cercare di sfondare il muro a testate no?
E poi, non credi che se la gente va ancora a teatro a vedere Moliere o Schakespeare vuol dire che l’arte che parla degli uomini agli uomini e tutt’altro che morta?
Secondo me un sacco di fotografi l’hanno già capito.

Luca 16 febbraio 2018 alle 12:09

Concordo fino all’ultima virgola, premettendo però che sperare che quanto auspicato possa essere fatto nei grandi numeri è illusorio. Tutti bene o male abbiamo una scolarizzazione e sappiamo un po scrivere ed esprimere più o meno bene i nostri pensieri. Tuttavia poi scopriamo che il vocabolario è limitato, che c’è bisogno di un approfondimento estramemante faticoso se si vuole uscire dalla gabbia del pensiero medio che invece gode del soddisfacimento immediato. Ciò che è detto in questo post, e che condivido, implica la separazione della massa da coloro che operano per il superamento della medietà della massa stessa. Andare quindi a rileggersi i francofortesi non farebbe male in questo periodo. In fondo Adorno lo scrisse già tanti anni fa, che le ribellioni giovanili, nella nostra società sono in realtà comportamenti perfettamenti integrati e il selfie, secondo me, rientra assolutamente tra questi. Anzi, quanto più risponde ad un bisogno emotivo immediato tanto più è comportamento intergato in quella bulimia del soddisfacimento di cui si parla in apertura di questo interessante ragionamento. Naturalmente rimane giusto nettere quanto più possibile la pulce, diciamo, nell’occhio di tutti.

S.P. 16 febbraio 2018 alle 09:40

Tanti gli argomenti e gli spunti su cui poter dibattere e tutto vero quanto scritto ma …
A mio avviso non si possono ignorare completamente chi questi strumenti di oggi (dai social per la fotografia ai filtri, da Photoshop agli esperti web) li hanno inventati sperimentando sempre sulle e con le immagini e econ e sulla loro diffusione… Prima erano artigiani e sperimentatori da bagno e camera oscura… Oggi sono menti impiegate in grossi colossi della tecnologia e in grado di far diventare ad esempio un blog (prorpio come questo) uno strumento di lettura e diffusione e perchè no un telefonino la macchina fotografica più usata al mondo… A loro (queste menti) qualcosa va riconosciuto o no? Non mi pare di aver letto niente di tutto ciò, dando per scontato che esistono social e programmi di manipolazione, ma che da soli non si creano né si ingegnano: qualcuno le ha poste in essere, e anche in questo caso é stata una mente umana. Qualcuno a suo tempo inventò la Kodak (una delle tante pietri miliari nella fotografia alla portata di tutti) qualcun’altro qualche decina di anni fa ha inventato photoshop, oppure ancora più recentemente Instagram. Quest’ultimo ad esempio – che piaccia o meno – rappresenta un movimento sociale (ed economico) che può tranquillamente essere considerato una pietra miliare, in ogni caso, nel mondo della fotografia. Sicuramente « i software di oggi permettono… » ma qualcuno li ha inventati, studiati e realizzati sperimentando proprio intorno e con le immagini.